Tecniche psicologiche e comunicative usate dai politici per abbindolarci
Avete mai sentito uno slogan politico rimanervi in testa per giorni? O vi siete chiesti perché un discorso appassionato di un leader vi abbia quasi convinto, anche se eravate scettici? Non è magia – è una combinazione di psicologia e comunicazione. Nell’articolo di oggi esploreremo le tecniche psicologiche e comunicative che i politici utilizzano per abbindolarci, ovvero per influenzare (e talvolta manipolare) l’opinione pubblica in modo subdolo ma potente. Sarà un viaggio divulgativo ma approfondito, adatto a chi è curioso di psicologia e neuroscienze applicate alla politica.
Perché cadiamo nelle trappole mentali dei politici? Come fanno certi leader a farci vedere il mondo con le loro lenti? Prepariamoci a scoprirlo analizzando bias cognitivi, framing, priming, storytelling, linguaggio emotivo e altre tecniche persuasive. Citando esperti come Robert Cialdini, George Lakoff, Frank Luntz e autorevoli studi scientifici, capiremo i meccanismi nascosti dietro i discorsi dei potenti. E alla fine dell’articolo vedremo anche come difenderci e sviluppare un pensiero critico per non farci più “abbindolare” così facilmente.
Bias cognitivi ed euristiche: i trucchi nascosti nella mente
Iniziamo dal cuore della questione: la nostra mente. Spesso pensiamo di votare o giudicare i politici in modo razionale, ma in realtà usiamo scorciatoie mentali – bias cognitivi ed euristiche – che i politici furbi sanno sfruttare. Un bias cognitivo è un errore sistematico nel nostro modo di pensare: una sorta di scorciatoia che ci fa interpretare la realtà in maniera distorta senza rendercene conto. Ad esempio, il bias di conferma: tendiamo a cercare e credere a informazioni che confermano le nostre idee preconcette, ignorando quelle contrarie. In politica questo è diffusissimo: se un elettore crede che un certo partito sia “il migliore”, presterà attenzione solo alle notizie positive su quel partito, scartando le critiche. Questo bias è “duro a morire” perché legato al nostro istinto di sentirci dalla parte giusta.
Un altro esempio è l’euristica della disponibilità: giudichiamo la probabilità di un evento in base a quanto facilmente ci viene in mente un esempio. I media e i politici possono sfruttarla enfatizzando certi fatti: dopo un attacco terroristico molto coperto dai telegiornali, il pubblico sopravvaluta la frequenza di atti terroristici e accetta politiche di sicurezza drastiche per la paura. In pratica, se sentiamo parlare in continuazione di un problema (criminalità, immigrazione, ecc.), tendiamo a pensare che sia più comune o grave di quanto sia in realtà – e i politici che offrono soluzioni forti a quel problema guadagnano consenso.
Queste scorciatoie mentali sono state studiate a fondo dalla psicologia. Lo psicologo premio Nobel Daniel Kahneman, insieme ad Amos Tversky, dimostrò già negli anni ‘80 come basta incorniciare diversamente la stessa scelta (perdita o guadagno) per far cambiare decisione alle persone. È il famoso framing effect, di cui parleremo tra poco. I politici conoscono bene questi meccanismi, magari non con il gergo accademico, ma in pratica sanno che l’istinto spesso batte la razionalità nell’urna elettorale.
Altri bias comuni? L’effetto “bandwagon” (salire sul carro del vincitore): molti tendono a sostenere chi è dato per vincente, perché pensano “se tutti lo votano, avrà ragione” – e infatti i candidati adorano mostrare folle osannanti o sbandierare sondaggi favorevoli (social proof, di cui parleremo in seguito). C’è poi l’effetto di ancoraggio: la prima informazione che riceviamo funge da riferimento. Un politico può sparare una proposta esagerata (es. ridurre le tasse del 50%) sapendo che non passerà, ma intanto ha “ancorato” il dibattito su quella cifra, così quando si discuterà di un taglio più modesto sembrerà ragionevole in confronto. E come dimenticare il Dunning-Kruger effect: chi meno conosce un tema spesso è più sicuro di sé. Politici semplicistici sfruttano questa dinamica: danno soluzioni facili a problemi complessi, rassicurando chi non ha gli strumenti per valutare la reale difficoltà di certe scelte.
Cerchiamo di capire tutto questo con un esempio reale: Pensiamo alla retorica su temi scientifici come i vaccini o il cambiamento climatico. Un politico con eccesso di sicurezza può negare il consenso scientifico con slogan tipo “non facciamoci fregare dagli esperti”, facendo leva sul bias per cui ciascuno crede di poter capire da sé questioni complicatissime dopo aver letto due articoli online. In questo modo, il pubblico condivide la sovrastima delle proprie conoscenze, e chi porta prove contrarie viene ignorato o sminuito (di nuovo bias di conferma all’opera).
Vi riconoscete in qualcuno di questi meccanismi? Non sentitevi in colpa: è umano! Siamo tutti predisposti a questi errori di giudizio. Ed è proprio facendo leva su tali predisposizioni che i politici possono orientarci come una bussola impazzita. Ma quali strumenti concreti usano? Entriamo nel vivo delle armi della persuasione.
Le armi della persuasione: i principi di Cialdini (e oltre)
Ora che abbiamo visto i “punti ciechi” della nostra mente, vediamo come vengono sfruttati. Uno dei nomi più importanti in questo campo è Robert Cialdini, psicologo sociale autore del celebre Le armi della persuasione. Cialdini ha individuato sei principi fondamentali che rendono un messaggio persuasivo:
- Reciprocità: le persone tendono a ricambiare i favori. In politica, regalare piccoli gadget, fare promesse di benefici o anche solo mostrare gesti di generosità crea un senso di obbligo nell’elettore. (Esempio: “Ho abbassato le tasse sulla tua casa, ricorda chi te lo ha concesso…”)
- Impegno e Coerenza: una volta che abbiamo preso una posizione o fatto una promessa, vogliamo essere coerenti. I politici cercano quindi di farci assumere un piccolo impegno iniziale – ad esempio firmare una petizione, partecipare a un evento – sapendo che ciò aumenterà la probabilità che poi li sosterremo in modo più convinto per coerenza con noi stessi.
- Riprova sociale (Social proof): se vediamo tante altre persone fare una cosa, saremo portati a farla anche noi. Ecco perché i comizi sono pieni di bandiere e folle plaudenti in TV, e anche perché le campagne enfatizzano frasi come “milioni di cittadini sono con noi”. L’idea è: “Se la maggioranza approva questo candidato, forse ha ragione, non voglio restare indietro”.
- Autorità: tendiamo a fidarci e obbedire a figure autorevoli o esperte. Un politico vestirà in modo formale, parlerà con tono deciso, si farà affiancare da esperti o figure rispettate (generali, professori, imprenditori famosi) per dar peso alle proprie tesi. Anche simboli come palazzi istituzionali, bandiere, titoli (“Onorevole”, “Ministro”) creano un’aura di autorità che induce le persone a sospendere il dubbio critico.
- Simpatia (Liking): se un politico ci piace, magari per carisma, senso dell’umorismo o perché lo sentiamo “uno di noi”, saremo più influenzabili. Per questo molti leader cercano di sembrare accessibili: sorridono, raccontano aneddoti personali, fanno battute. Pensate a Silvio Berlusconi: una delle sue armi principali è sempre stata la simpatia costruita con gli elettori – il tono scherzoso, il chiamare tutti per nome, il presentarsi come l’amico ricco ma alla mano. Quando un politico riesce a farsi percepire come “piacevole” o addirittura amico, il pubblico sarà meno propenso a dubitare delle sue parole.
- Scarsità: le persone danno più valore a ciò che è percepito come raro o disponibile per poco tempo. Ecco perché in campagna elettorale si creano spesso sensi di urgenza: “Questa è l’ultima chance per salvare il paese”, “Ora o mai più possiamo fare questa riforma”. Messaggi del genere spingono gli elettori ad agire subito (votare) perché temono di perdere l’occasione. Allo stesso modo, si enfatizza quando un leader è “unico” o quando un diritto è “sotto attacco e rischia di sparire”: la percezione di scarsità o minaccia aumenta il coinvolgimento emotivo e abbassa le difese razionali.
Capiamoci bene: questi principi non sono trucchi magici inventati a tavolino – sono radicati nella psicologia umana. I politici (e i pubblicitari) li usano proprio perché funzionano su tutti noi, a livello intuitivo. Ad esempio, quando un candidato elettorale firma in TV un “contratto con gli italiani” (come fece Berlusconi nel 2001 al programma televisivo Porta a Porta), sta sfruttando sia l’impegno e coerenza (mi sono impegnato pubblicamente, ora devo mantenere) sia l’autorità e la teatralità per dare peso alla promessa. Quando un comizio sottolinea “siamo in tantissimi qui oggi” sta usando riprova sociale. Quando un leader regala abbracci e selfie al mercato, costruisce simpatia e reciprocità (“è venuto tra noi, gli devo riconoscenza”). Quasi ogni gesto in politica, se ben studiato, risponde a uno di questi meccanismi.
La prossima volta che assistete a un discorso elettorale o a uno spot politico, provate a giocarci: contate quanti di questi principi riconoscete. Vi sorprenderà scoprire che spesso sono tutti presenti, come ingredienti di un cocktail perfetto di persuasione. E ora, passando dall’aspetto psicologico a quello comunicativo, vediamo due concetti chiave: framing e priming – ovvero come le parole e il contesto possono plasmare il nostro modo di pensare.
Framing e priming: incorniciare e innescare le percezioni
Immaginate che un politico descriva una stessa manovra economica in due modi diversi: “Investiremo 100 milioni per migliorare i servizi” oppure “Spenderemo 100 milioni dei vostri soldi in più”. La realtà numerica è identica, ma probabilmente la vostra reazione emotiva è cambiata. Questo è il potere del framing, ovvero l’incorniciamento del linguaggio: il modo in cui un problema viene presentato (frame) ne altera la percezione. L’idea di base, come spiega il linguista cognitivo George Lakoff, è che le parole attivano strutture mentali profonde. Ogni parola evoca metafore, valori, scenari. Se dico “non pensare a un elefante”, che cosa visualizzate? Inevitabilmente… un elefante. Lakoff proprio con l’esempio dell’elefante ci insegna che negare un frame significa rinforzarlo: se un politico è accusato di qualcosa, ripetere le accuse per negarle (“Non sono corrotto!”) rischia di tenere viva nella mente di tutti proprio l’idea della corruzione.
Cerchiamo di capire meglio questo meccanismo con un Esempio reale: Durante la campagna USA 2016, Donald Trump affibbiò a Hillary Clinton il soprannome “Crooked Hillary” (“Hillary la corrotta”) e lo ripeté ossessivamente in comizi e tweet. Anche senza prove concrete, quel frame di “disonestà” si radicò nell’elettorato. Lakoff notò che la ripetizione costante di un’etichetta finisce per plasmarne la percezione: chiamandola sempre “la corrotta”, nel subconscio collettivo Hillary diventava corrotta. La Clinton provò a rispondere ai vari attacchi di Trump, ma così facendo ripeteva a sua volta quelle parole negative (un po’ come dire “non pensate che io sia corrotta” – troppo tardi, l’immagine è lì).
Il framing, dunque, consiste nello scegliere accuratamente quali aspetti enfatizzare e quali termini usare. Un maestro di questa arte è Frank Luntz, stratega della comunicazione politica. Luntz sostiene: “Non è ciò che dici, è ciò che la gente ascolta”. Ha passato la carriera a testare termini che suscitano la reazione desiderata. Ad esempio, negli USA, proporre di abolire la “estate tax” (tassa di successione) non scaldava i cuori. Luntz suggerì di chiamarla “death tax” (tassa sulla morte): improvvisamente suonava ingiusta, macabra, insopportabile. Allo stesso modo, ha incoraggiato i politici conservatori a parlare di “climate change” invece di “global warming”: in inglese “cambiamento climatico” appare più neutro e meno minaccioso di “riscaldamento globale”. Cambiando una parola, si cambia il frame emotivo: “riscaldamento” evoca calore, allarme; “cambiamento” può essere anche naturale o inevitabile.
Pensiamo all’Italia: la scelta delle parole nei dibattiti è cruciale. Prendiamo il tema dell’immigrazione: “clandestino” vs “rifugiato”, “ondata migratoria” vs “flusso di persone” – ogni termine ha sfumature diverse. Dire “ondata” evoca un’alluvione, qualcosa di fuori controllo (frame di minaccia); dire “persone in fuga” evoca empatia (frame umanitario). Un governo che vara un decreto sicurezza lo chiamerà magari “Decreto Salva-città” se vuole incorniciarlo positivamente, mentre gli oppositori potrebbero etichettarlo “legge bavaglio” se ritengono limiti la libertà. Chi vince la battaglia dei frame spesso vince la battaglia politica.
Correlato al framing è il priming, il fenomeno per cui un’informazione precedente innesca (to prime) certe associazioni che influenzano come elaboriamo ciò che viene dopo. Nei media, il priming politico significa che l’argomento su cui si concentra l’attenzione pubblica diventa il metro con cui giudichiamo i leader. Esempio: se i telegiornali per settimane parlano principalmente di criminalità, gli elettori tenderanno a valutare i politici soprattutto su come affrontano la criminalità. Anche senza coordinazione esplicita, un politico furbo sfrutta il priming mediatico: se sa che si parla continuamente di economia, costruirà i suoi messaggi attorno all’economia, perché è quello il terreno su cui gli elettori decideranno. Inoltre, a livello più implicito, le parole possono fare priming: se in un discorso un leader ripete spesso parole legate, poniamo, alla forza e sicurezza (es. “difesa”, “ordine”, “proteggere”), sta predisponendo il pubblico a recepire positivamente proposte di legge e ordine. Il priming crea aspettative e cornici di riferimento immediate nella mente.
Proviamo insieme un mini-esperimento: se vi dico “facciamo la guerra ai problemi dell’economia”, vi figurate una specie di battaglia, giusto? Se invece dico “curiamo i problemi dell’economia”, il frame ora è sanitario: l’economia come un organismo malato da guarire. Guerra o cura: quale preferite? I politici scelgono metafore del genere con estrema cura, perché sanno che cambiano totalmente il modo in cui il pubblico interpreta la realtà. Ora passiamo ad un’altra leva potentissima: le emozioni e le storie.
Storytelling ed emozioni: il potere delle storie e del linguaggio emotivo
Gli esseri umani pensano per storie. Da millenni, prima ancora di saper leggere, trasmettiamo conoscenza con racconti. Non c’è da stupirsi se i politici utilizzano massicciamente lo storytelling – ovvero il narrare storie – come strumento di persuasione. Una storia ben raccontata può far breccia dove dati e grafici non arrivano: tocca le corde emotive, crea identificazione, rimane impressa. Spesso nei discorsi pubblici sentirete l’esponente politico di turno dire: “Ho incontrato una madre che mi ha raccontato…” e parte la storia di una persona comune con un problema, che guarda caso le politiche del candidato risolverebbero. Questi aneddoti personalizzati servono a rendere concreta e viva una questione altrimenti astratta, suscitando empatia nell’ascoltatore.
Studi recenti confermano l’efficacia di questo approccio: un’analisi di spot elettorali americani ha rilevato che i candidati vincenti tendevano a usare più narrazioni positive autobiografiche o di elettori reali, mentre i perdenti ricorrevano di più a spot negativi e attacchi anonimi. In altre parole, raccontare la propria storia in chiave ottimista (“da bambino povero a Presidente: ce l’ho fatta con impegno e ora voglio aiutare voi”) funziona meglio che denigrare l’avversario con una voce narrante qualsiasi. La gente vuole ispirarsi e identificarsi, non solo sentire polemiche. Barack Obama è stato maestro in questo: la sua campagna del 2008 era costruita sul motto “Hope” e “Yes We Can”, affiancato da continui riferimenti alla sua biografia (figlio di immigrato, umili origini, l’America terra di opportunità) e a storie di comuni cittadini americani. Quel racconto collettivo di speranza ha creato un’ondata emotiva positiva che ha mobilitato milioni di persone, ben oltre i confini delle solite linee partitiche.
Accanto alle storie, c’è il linguaggio emotivo puro e semplice. I politici calibrano con attenzione le emozioni che vogliono suscitare: paura, rabbia, orgoglio, speranza. La paura è un potente catalizzatore: un elettorato spaventato (dal crimine, dal terrorismo, dalla crisi economica) cerca protezione e soluzioni rapide. Non a caso, spot e comizi a volte dipingono scenari quasi apocalittici se “gli altri” vanno al potere: si amplifica il senso di minaccia per presentarsi poi come l’unico salvatore. Tuttavia, attenzione: la ricerca psicologica mostra che l’efficacia della paura ha dei limiti. Secondo vari studi, messaggi basati sulla paura possono aumentare l’attenzione e la motivazione a votare (il timore spinge ad agire) ma se la paura è eccessiva o non accompagnata da una soluzione concreta, le persone possono anche reagire con rifiuto o panico. Perciò spesso la paura viene accoppiata alla rabbia: il leader populista, per esempio, indica un colpevole (gli immigrati, l’élite, l’Europa, “l’altro” di turno) e trasforma la paura in rabbia contro quel bersaglio. La rabbia tende a mobilitare attivamente (spinge a “punire” il nemico alle urne), ed è altamente polarizzante. Altri politici invece scelgono di evocare speranza e ottimismo: è il caso di chi si presenta come “il nuovo che risolverà i problemi”. La speranza genera entusiasmo, partecipazione volontaria (volontariato per la campagna, passaparola), ed è stata la chiave di campagne come quella di Obama ma anche, in Italia, di movimenti come l’M5S di Beppe Grillo nel 2013 o di altri outsider.
Nel linguaggio emotivo rientrano tecniche retoriche antiche ma sempre efficaci. Un breve elenco: le ripetizioni martellanti di un concetto (pensate a Trump: “Make America Great Again, Make America Great Again” – diventa un mantra ipnotico), l’uso di metafore semplici e vivide (ad esempio “drenare la palude” per indicare il ripulire la politica dalla corruzione: un’immagine forte e chiara), le anafore (iniziare frasi consecutive allo stesso modo, es. “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana” ripetuto per enfatizzare l’identità, come ha fatto Giorgia Meloni in un celebre comizio), il registro colloquiale per sembrare vicini alla gente (Matteo Salvini spesso usa un linguaggio da bar, volutamente semplice e diretto, infarcito di espressioni dialettali e modi di dire popolari). Anche il tono di voce e la comunicazione non verbale contano: alzare il tono e puntare il dito per trasmettere indignazione, abbassarlo e rallentare per momenti di sincerità e connessione emotiva. Tutto orchestrato per guidare le emozioni del pubblico su un’altalena calibrata.
Vediamo insieme alcuni esempi reali di leader e tecniche:
- Donald Trump: utilizza un linguaggio semplicissimo (frasi brevi, vocabolario elementare), ripetitivo e divisivo. Ha fatto ampio uso di nickname denigratori per gli avversari (“Crooked Hillary”, “Sleepy Joe”) incorniciandoli negativamente. Ha puntato molto su paura e rabbia: dall’allarme immigrazione (“costruiremo il muro”, paventando orde di criminali) alla sfiducia nelle istituzioni (“drain the swamp”, dipingendo Washington come una palude corrotta). Allo stesso tempo, si è presentato come uomo forte e risoluto, usando spesso la prima persona (“I will fix it” – Io lo sistemerò in italiano) e parole come “vince, enorme, fantastico” per generare entusiasmo. Il risultato? Un coinvolgimento emotivo intenso dei suoi sostenitori, quasi un tifo da stadio, e un’attenzione mediatica costante (anche chi lo avversava finiva per parlare sempre di lui – effetto framing a suo favore). Uno studio linguistico ha rilevato che il suo stile è unico tra i presidenti USA per semplicità e alta frequenza di termini aggressivi/dispregiativi.
- Silvio Berlusconi: ha innovato la comunicazione politica italiana trasformandola in spettacolo personalizzato. Da abile imprenditore televisivo, ha capito per primo l’importanza di controllare il frame mediatico: possedeva network TV e giornali e li usò per promuovere la propria immagine di imprenditore di successo, self-made man ottimista. Persuasione per simpatia: barzellette, modi di dire colloquiali (“mi consenta...” divenne un tormentone che ancora oggi resiste nella cultura nazionalpopolare), presenza scenica solare, mai arrabbiato in pubblico ma sempre sorridente, abbronzato, rassicurante. Questo costruiva un brand di Berlusconi come “uno di famiglia”. Faceva promesse semplici e desiderabili (“Meno tasse per tutti” – reciproca utilità, self-interest degli elettori) spesso esagerate ma accompagnate da un carisma che portava molti a pensare: “Se lo dice Silvio, sarà vero”. Ha usato anche lo storytelling personale: il povero ragazzo che cantava sulle navi da crociera e con il duro lavoro è diventato miliardario – un sogno italiano in cui identificarsi. E amava le metafore calcistiche (da presidente del Milan): politica come partita, avversari come “squadre avversarie”, il pubblico come tifosi. Berlusconi incarna bene la riprova sociale (si circondava di personaggi famosi, belle donne, eventi affollati per dimostrare popolarità) e l’autorità/credibilità costruita con scenografie (ricordate i discorsi alla scrivania col tricolore sullo sfondo? Chiara intenzione di comunicare stabilità e tradizione).
- Barack Obama: un oratore sopraffino, ha puntato su emozioni positive e inclusione. Nei suoi discorsi usava spesso l’anafora (celebre il “Yes We Can” ripetuto più volte nel discorso di New Hampshire, 2008, quasi a ritmo musicale), e la tecnica del contrast (“non c’è una America nera e una bianca, ma gli Stati d’America” – contrapposizione per unire). Il framing della sua campagna era “speranza e cambiamento”, che ha reinterpretato la narrativa americana del “sogno” in chiave moderna. È interessante notare che: Obama alternava un registro alto, ispirato (citazioni di Martin Luther King, toni da predicatore nei comizi) a momenti di colloquialità e autoironia (andando ospite ai late show, scherzando su se stesso). Questo mix creava identificazione: era sia un leader visionario sia “un tipo simpatico con cui andresti a bere una birra” – un bilanciamento perfetto di autorità e simpatia. Inoltre, la sua abilità narrativa gli permetteva di affrontare temi complessi (sanità, economia) raccontando la storia di chi ne era toccato, rendendo tutto più concreto e coinvolgente.
- Giorgia Meloni: caso contemporaneo italiano, la cui comunicazione efficace le ha fatto guadagnare un ampio consenso in pochi anni. Meloni usa linguaggio diretto, concreto, vicino al gergo comune. La prof.ssa Giovanna Cosenza, esperta di semiotica, nota che la Meloni si pone “dal punto di vista degli strati popolari della società” e parla come (lei immagina) parlino e pensino loro. In pratica modula il registro: quando è in contesti formali internazionali adotta un linguaggio più elevato, ma quando parla “ai suoi” usa termini semplici, espressioni dialettali romanesche, frasi brevi e incalzanti. Questo doppio registro le permette di apparire bimodale: sia statista autorevole sia “una di noi” del popolo. Un esempio notevole: durante la campagna, ha incoraggiato a scrivere sulla scheda elettorale semplicemente “Giorgia”, dando del tu implicito all’elettore e creando familiarità. Il suo repertorio emotivo spazia dall’indignazione (famosi alcuni dei suoi video su Facebook) alla rivendicazione orgogliosa di identità: “Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana” – questa ripetizione identitaria è diventata persino un tormentone remix, segno che aveva colpito nel segno nella comunicazione nazionale. La Meloni utilizza molto il frame “patriottico”: parole come Nazione, patria, sovranità, orgoglio italiano ricorrono nei suoi discorsi, attivando nei sostenitori sentimenti di appartenenza e fierezza (e allo stesso tempo tracciando implicitamente una linea “noi patrioti” vs “loro cosmopoliti/globalisti”). Anche lei, come altri populisti, alterna il bastone e la carota emotiva: paventa minacce (sostituzione etnica, declino demografico, insicurezza) ma offre anche un sogno positivo di riscatto nazionale e ordine ritrovato.
- Emmanuel Macron: un leader differente, spesso descritto come più moderato nei toni, ma con interessanti strategie comunicative. Macron ha costruito la propria immagine sul frame del rinnovamento centrista. Ha cercato di superare la dicotomia destra-sinistra presentandosi come outsider anti-establishment pur venendo dall’establishment – un equilibrio non facile. Ci è riuscito anche grazie a una retorica molto mirata: da un lato discorsi “presidenziali” solenni, dall’altro una presenza mediatica moderna, quasi pop. Ad esempio, dopo essere stato eletto, ha organizzato un grande discorso al Louvre con musiche epiche, luci e bandiere, incarnando visivamente la grandeur francese (frame di orgoglio nazionale e continuità storica); allo stesso tempo, in campagna amava farsi vedere in mezzo ai giovani, farsi selfie, partecipare a programmi informali, persino video su YouTube con influencer – mosse per apparire vicino alle nuove generazioni. Macron usa spesso un linguaggio tecnocratico nei dettagli (per rassicurare i moderati e gli investitori, frame di competenza, visto anche che Macron era anche un banchiere), unito però a slogan semplici ed emotivi in cima (per convincere gli indecisi): il motto della sua prima campagna era “Ni de droite, ni de gauche” (né di destra né di sinistra), che incorniciava lui come figura unificante e pragmatica in un momento di polarizzazione, mentre la rivale Le Pen spingeva su un frame divisivo Macron ha dovuto anche affrontare momenti di forte protesta (gilet gialli) e in quel caso ha usato la strategia dell’ascolto attivo: il “Grand Débat” nazionale, ovvero incontri pubblici in cui dialogava con i cittadini per ore. Questo gli ha permesso di riframmentare la sua immagine da “presidente dei ricchi” (accusa iniziale) a leader che ascolta e cerca di capire i problemi – un buon esempio di come la comunicazione (in questo caso l’atto stesso di ascoltare in pubblico) possa recuperare consenso.
Abbiamo fatto una carrellata su varie tecniche e su come leader famosi – in Italia e all’estero – le abbiano messe in pratica. Ma oggi c’è un fattore che amplifica il tutto in maniera impressionante: i social media e i nuovi mezzi di comunicazione. È il momento di vedere come Facebook, Twitter, TikTok & co. giocano un ruolo in questa partita scacchistica della persuasione.
Media e social media: amplificatori di persuasione (microtargeting, echo chambers, polarizzazione)
Viviamo nell’era dell’informazione pervasiva. Se un tempo il comizio in piazza o il dibattito TV erano i canali principali per influenzare l’opinione pubblica, ora c’è un infinito comizio digitale che avviene ogni giorno sui nostri smartphone. Questo ha aperto la strada a tecniche nuove (e qualche rischio nuovo) nella comunicazione politica:
- Microtargeting e pubblicità su misura: Avrete sentito dello scandalo Cambridge Analytica nelle elezioni USA 2016: questa società ottenne dati da milioni di profili Facebook e li usò per confezionare messaggi politici mirati ai singoli utenti. In pratica, se dai dati risultava che un elettore era giovane, disoccupato e amante delle auto, poteva ricevere su Facebook l’inserzione del candidato X che prometteva incentivi per l’industria automobilistica e lavoro per i giovani. Il microtargeting sfrutta gli algoritmi per adattare il frame giusto alla persona giusta: ciascuno vede la versione del messaggio che più fa leva sui suoi bias e bisogni. Studi successivi hanno cercato di capire quanto funzioni davvero questa iper-personalizzazione; sembra che un targeting su alcune caratteristiche (es. il partito di appartenenza) aumenti l’efficacia del messaggio del 70%, ma spingersi a target troppo specifici non dia vantaggi ulteriori. Insomma, dire a un progressista quel che vuole sentirsi dire su un tema ha un chiaro effetto persuasivo; combinare mille micro-variabili invece ha risultati meno chiari di quanto si credesse. In ogni caso, l’uso di dati personali per fini politici resta un terreno eticamente delicato: il fatto stesso che siamo bersagliati da messaggi su misura può sfuggirci, e quindi possiamo essere influenzati senza consapevolezza.
- Echo chambers (casse di risonanza) e filtri: Sui social tendiamo a seguire o ad essere amici di persone con idee simili alle nostre, e gli algoritmi ce le ripropongono di continuo. Nascono così le camere dell’eco, ambienti in cui sentiamo solo l’eco delle nostre opinioni. Online finiamo facilmente per leggere e discutere sempre con chi è d’accordo con noi, mentre le voci dissenzienti vengono escluse o coperte dal rumore. Questo rinforza il bias di conferma su scala massiva: se penso che il politico X sia un eroe, nella mia bolla social tutti condivideranno notizie che lo dipingono come tale; se penso che Y sia un mostro, vedrò solo i suoi passi falsi o meme denigratori. Un professore di comunicazione ha descritto queste echo chambers come “terreni fertili per l’estremismo” – perché senza prospettive diverse o moderazione esterna, i toni si alzano sempre di più. Su gruppi chiusi o forum monotematici, pian piano si arriva a giustificare idee prima impensabili, perché tutti attorno a noi le normalizzano.
- Algoritmi e polarizzazione: Le piattaforme come Facebook, YouTube, Instagram non sono neutrali: il loro obiettivo è tenerci incollati allo schermo più a lungo. Come ci riescono? Offrendoci contenuti che suscitino reazioni forti, così li commentiamo, mettiamo like, condividiamo. Purtroppo, spesso sono le emozioni negative (indignazione, rabbia, shock) a generare più engagement. Diversi articoli hanno sottolineato che i feed social “sfruttano i nostri interessi per tenerci online il più possibile”, spingendo visibilità ai contenuti estremi o moralizzanti che massimizzano commenti e condivisioni. Notizie equilibrate e verifiche accurate risultano noiose per l’algoritmo rispetto a post con titoli urlati e posizioni radicali, quindi tendono a essere penalizzate. Il risultato è una polarizzazione crescente: veniamo nutriti di contenuti sempre più “di parte”, che ci fanno arrabbiare contro l’altra fazione o temere catastrofi, e la società si spacca in tribù emotive che non comunicano tra loro. Pensiamo ai dibattiti su Twitter (oggi X): spesso degenerano in insulti e tifoserie proprio perché l’ambiente è carico di messaggi esasperati, non c’è quel contrappeso del confronto civile faccia a faccia. Addirittura, alcuni studi hanno scoperto che le fake news (notizie false) circolano più veloce di quelle vere: un’analisi su Twitter ha mostrato che la disinformazione viaggia “più lontano, più veloce, più in profondità e più ampiamente” della verità – in particolare le bufale politiche si diffondono molto più rapidamente delle notizie corrette. I falsi miti spesso hanno titoli sensazionali pensati per diventare virali, e infatti un falso tweet ha il 70% in più di probabilità di essere ritwittato rispetto a uno vero, raggiungendo migliaia di persone in tempi record. Questo crea un circolo vizioso: la polarizzazione rende il pubblico più propenso a credere a notizie assurde (purché attacchino “gli altri”), e queste notizie alimentano ulteriore polarizzazione e sfiducia generale.
In sintesi, l’ecosistema mediatico attuale è un amplificatore sia delle tecniche persuasive legittime sia di quelle ingannevoli. Da un lato, i politici sfruttano i social per comunicare in modo diretto e microtargettizzato con gli elettori, senza filtri giornalistici – il che può anche essere positivo in termini di contatto diretto. Dall’altro, le dinamiche delle piattaforme possono far sì che strategie come la disinformazione e l’odio polarizzante abbiano un terreno fin troppo fertile. Basti pensare ai famigerati bot russi o agli eserciti di troll che diffondono propaganda sui social: riescono a insinuarsi nelle echo chamber e spingere fake news studiate per colpire precisi gruppi demografici, esacerbando divisioni (un caso su tutti, la marea di bufale e contenuti divisivi che hanno infestato Facebook durante la campagna per Brexit e per le elezioni USA 2016).
Ci troviamo quindi in un panorama in cui siamo bombardati di messaggi su misura, rinchiusi in bolle che ci ripetono ciò che vogliamo sentire, e provocati emotivamente per tenerci incollati allo schermo... Come possiamo districarci in tutto questo e non farci manipolare? Nella parte finale di questo articolo, vogliamo darvi qualche strumento pratico per aumentare la vostra consapevolezza e il pensiero critico.
Conclusione: difendersi dalla manipolazione – verso la consapevolezza critica
Siamo giunti alla fine di questo percorso tra psicologia e politica, e forse vi starete chiedendo: “Ok, ora so che cercano di manipolarmi… ma che posso fare io, nel mio piccolo, per non cascarci?” 😅
La buona notizia è che esistono antidoti, o quantomeno buone abitudini, per rafforzare le nostre difese mentali. Ecco alcuni suggerimenti pratici, come una piccola cassetta degli attrezzi di pensiero critico:
- Riconoscere le tecniche: Il primissimo passo è proprio fare ciò che stiamo facendo ora – imparare a riconoscere bias e trucchi retorici. Quando sai che esistono, inizi a notarli. Se un discorso ti sembra perfetto, chiediti: “Sta usando riprova sociale? Mi sta spaventando per convincermi? Mi sta lusingando?” Questo crea una sana distanza critica tra te e il messaggio. In un certo senso, smascherare il gioco lo rende meno efficace.
- Verificare le informazioni e le fonti: Viviamo nell’era della disinformazione, quindi non accettare passivamente ogni dichiarazione altisonante. Se un politico snocciola dati clamorosi (es. “la criminalità è raddoppiata!”), verifica su fonti affidabili o fact-checking se è vero. Controlla chi sta dando la notizia: è una fonte neutrale o schierata? Un’abitudine utile è controllare la notizia su più testate e vedere se coincide. Spesso le bugie hanno vita breve se uno si prende il tempo di cercare conferme esterne.
- Diversificare le tue fonti di informazione: Per evitare di restare intrappolato in una echo chamber, esci dalla bolla ogni tanto. Segui anche qualche voce che non la pensa come te, leggi testate di orientamento diverso. Questo non perché tu debba cambiare idea ad ogni stormir di fronde, ma per conoscere gli altri punti di vista e renderti conto di quali argomenti circolano. È un ottimo esercizio contro il bias di conferma: ti costringe a confrontare la tua opinione con obiezioni e fatti che altrimenti non vedresti mai.
- Stai attento alle emozioni troppo forti: Se un post sui social o un discorso ti fa arrabbiare moltissimo o ti spaventa a morte, fai un passo indietro. Quelle emozioni forti sono spesso un segnale che qualcuno sta cercando di bypassare la tua mente razionale e premere i pulsanti del tuo “cervello rettiliano”. Come ha scritto un editorialista, “essere scettici verso informazioni che suscitano reazioni emotive intense” è una chiave per evitare la disinformazione. Quindi: respira, conta fino a 10, e analizza di nuovo la questione a mente fredda, magari il giorno dopo.
- Allenare il pensiero critico e la metacognizione: Chiediti sempre chi ci guadagna da una certa narrativa. Se un politico dipinge tutto nero, forse vuole presentarsi come unico salvatore. Se uno ti promette miracoli, forse vuole il tuo voto facile. Impara a mettere in dubbio le semplificazioni e le soluzioni “facili”. Il mondo è complesso: se qualcuno lo riduce a bianco o nero, probabilmente sta facendo propaganda. Sviluppare un’abitudine al dubbio (che non significa cinismo totale, ma sana curiosità) è la migliore autodifesa.
Inoltre, oggi si parla molto di alfabetizzazione mediatica: sarebbe utile imparare sin da giovani a riconoscere una fake news, a capire come funziona un algoritmo di Facebook, a distinguere un’opinione da un fatto. In alcuni paesi iniziano a insegnarlo a scuola. Nel tuo piccolo, puoi consultare siti di debunking (in Italia ce ne sono diversi, come BUTAC, Pagella Politica, Bufale.net) e magari condividere con amici e parenti le correzioni alle bufale più diffuse. Certo, non è sempre facile: a volte quando provi a smontare una notizia falsa incontri il bias di chiusura (le persone non vogliono ammettere di aver creduto a una bugia). Ma col tempo, seminando dubbio e fornendo fonti autorevoli, qualcosa può cambiare.
Infine, un consiglio importante: datti il tempo di riflettere. Viviamo in un flusso continuo di stimoli, i politici (e i media) spesso giocano sul “qui e ora, reagisci subito!”. Rompi questo schema: se un tema ti sta a cuore, approfondiscilo con calma, prima di formarti un’opinione definitiva o di scegliere chi sostenere. Come dice Kahneman, prova ad attivare il Sistema 2, il pensiero lento e riflessivo, invece di farti guidare solo dal Sistema 1 impulsivo. È un esercizio, ma ripaga in lucidità.
E allora…
Siamo arrivati al termine di questo viaggio in cui abbiamo smontato e analizzato i “trucchi del mestiere” dei leader politici: dai bias cognitivi ai frame linguistici, dallo storytelling emotivo alle strategie nei nuovi media. L’obiettivo non era dipingere i politici come stregoni manipolatori (non tutti almeno!), ma piuttosto capire i meccanismi che sono sempre esistiti nella retorica e che oggi, con la scienza e la tecnologia, sono affinati più che mai. Conoscere questi meccanismi ci rende cittadini più consapevoli e meno facilmente abbindolabili.
La prossima volta che un discorso vi farà battere forte il cuore – nel bene o nel male – fermatevi un istante e chiedetevi: quali corde sta pizzicando? Vi sta lusingando con qualcosa? Vi sta incorniciando la questione in un modo particolare? È una bellissima storia, certo… ma è supportata dai fatti? Questo non significa diventare cinici o smettere di emozionarsi per la buona politica, significa solo essere spettatori attivi, con la mente accesa e il filtro critico sempre operativo.
Grazie per aver letto fin qui. Speriamo che questo viaggio tra psicologia e comunicazione politica vi abbia interessato e magari divertito (perché no? Rendersi conto dei trucchi può essere anche uno spunto per ridere di certe esagerazioni). Vi invitiamo a continuare a informarvi, a leggere libri come quelli citati – da Le armi della persuasione di Cialdini a Don’t Think of an Elephant di Lakoff – se volete approfondire l’argomento.
Inoltre, se volete approfondire maggiormente questi ed altri argomenti potete ascoltare il nostro podcast Fatti di Mente, dove parliamo di Psicologia e Neuroscienze, disponibile su tutte le piattaforme podcast digitali-
Al prossimo articolo, e ricordate: “È meglio accendere una lampadina di conoscenza e coscienza nella mente che abitare l’oscurità dell’ignoranza.” 🔦✨
Fonti citate:
- Cialdini, R. (1984). Le armi della persuasione – principi di reciprocità, coerenza, riprova sociale, autorità, simpatia, scarsità - numberanalytics.com.
- Lakoff, G. (2004). Don’t Think of an Elephant! – concetto di framing (esempio “non pensare all’elefante”) e come i frame influenzano la percezione politica - theguardian.com.
- Luntz, F. – Words That Work – importanza delle parole giuste (esempi: “death tax” vs “estate tax”; “climate change” vs “global warming”) - en.wikipedia.org.
- Studio su storytelling in spot politici (Penn State, 2018) – narrazioni positive correlate a maggior successo elettorale - psu.edupsu.edu.
- Analisi linguistica su Trump (2023) – linguaggio più semplice e divisivo rispetto ad altri presidenti- psypost.org.
- Giovanna Cosenza su Meloni (2022) – linguaggio diretto, registro popolare e modulazione comunicativa di Giorgia Meloni - informazionesenzafiltro.itinformazionesenzafiltro.it.
- Articolo APA/USA su paura in politica – uso della paura come motivatore elettorale - apa.org.
- Echo chambers e social media (Studio University of Utah, 2025) – definizione di echo chamber e impatto su estremismo - dailyutahchronicle.com; importanza di diversificare le fonti e essere scettici di fronte a contenuti che scatenano forti emozioni - dailyutahchronicle.com.
- Studio MIT su fake news (Vosoughi et al., Science 2018) – le notizie false si diffondono più velocemente e ampiamente di quelle vere, specialmente in politica - mitsloan.mit.edu.
- Studio MIT su microtargeting (PNAS 2022) – efficacia limitata del targeting iper-specifico e riferimento al caso Cambridge Analytica 2016 - news.mit.edunews.mit.edu.